diritto internazionale pubblico

L’oro conteso del Venezuela: riconoscimento di governo, controllo effettivo e pandemia

Luca Pasquet, Utrecht University School of Law

Chi è il presidente della Banca centrale venezuelana (BCV) e chi compone il suo direttivo? Dipende. Avendo Maduro e Guaidó nominato entrambi un direttivo della BCV, per rispondere a questa domanda occorrerebbe prima determinare chi, tra i due contendenti, sia il Presidente del Venezuela. E di nuovo, la risposta sarebbe che ciò dipende dal criterio che si decide di adottare. Del resto, da quando Guaidó si è autoproclamato Presidente della Repubblica ad interim (si veda Pertile su SIDIBlog), il Paese appare come una creatura bicefala in cui coesistono due versioni delle maggiori istituzioni pubbliche: due presidenti, due governi, due presidenti dell’Assemblea Nazionale e, appunto, due direttivi della Banca Centrale. Tale sdoppiamento si riflette anche sul piano delle relazioni internazionali: non solo la comunità internazionale è divisa tra gli Stati che riconoscono il Governo Maduro e quelli che invece riconoscono il governo Guaidó, ma mentre all’ONU il Venezuela è rappresentato dal primo, all’OSA è rappresentata dal secondo (v. qui e qui).

La domanda è dunque complessa. Verrebbe da dire una domanda da un milione di dollari, sennonché, di dollari, essa ne vale almeno un miliardo. Ciò è almeno quanto traspare da una recente decisione della High Court of Justice of England and Wales in cui il giudice Teare si è pronunciato su chi – tra il direttivo nominato da Maduro e quello nominato da Guaidó – fosse autorizzato a disporre delle riserve di oro depositate dalla BCV presso la Bank of England, del valore, per l’appunto, di un miliardo di dollari americani, nonché a ricevere i proventi di un contratto swap su oro stipulato dalla BCV con Deutsche Bank, del valore di 120 milioni di dollari. Sul piano procedurale, la sentenza risponde in via preliminare alle questioni, di identico tenore, sollevate in due diversi procedimenti: il primo, riguardante il contratto swap su oro, iniziato da Deutsche Bank; il secondo iniziato dal Governo Maduro il 14 maggio scorso in reazione al rifiuto della Bank of England di accettare instruzioni dal “direttivo Maduro” rispetto alle riserve auree venezuelane. Ad ogni buon conto, come sintetizzato dal giudice Teare, “the two preliminary issues reflect the widely publicised dispute as to who is the President of Venezuela; Mr. Maduro or Mr. Guaidó” (par. 2).

La questione è stata esaminata da Teare esclusivamente sotto il profilo del diritto interno, poiché – ha affermato – il riconoscimento sarebbe un profilo “of English Law” (para 9). Il ragionamento del giudice si è dunque basato sul principio della “one voice doctrine” secondo il quale, in tema di riconoscimento di governo, le corti del Regno Unito devono attenersi alla posizione espressa dall’esecutivo. Gran parte della discussione ha quindi riguardato la domanda se il Governo britannico avesse effettivamente riconosciuto Guaidó come Presidente del Venezuela. Come ricordato nella sentenza, il 26 gennaio 2019, il Regno Unito, insieme ad altri Paesi europei, aveva dato a Maduro otto giorni per indire nuove elezioni, allo scadere dei quali avrebbe altrimenti riconosciuto Guaidó quale Presidente ad interim del Venezuela. Allo scadere dell’ultimatum, il 4 febbraio, non avendo Maduro indetto nuove elezioni, il Ministro degli Esteri Jeremy Hunt dichiarava: “The United Kingdom now recognises Juan Guaidó as the constitutional interim President of Venezuela, until credible presidential elections can be held” (par. 12). Il giudice Teare ha ritenuto tale dichiarazione sufficientemente chiara e vincolante per le corti del Regno Unito, dichiarando conseguentemente la nomina del presidente della BCV effettuata da Maduro “null and void” (Ruling 1, par. 9).

Il giudice è pervenuto a tale conclusione dopo aver respinto vari argomenti sollevati dalla difesa del governo Maduro, secondo cui la dichiarazione del Ministro degli Esteri non sarebbe stata sufficiente per concludere che il Regno Unito avesse effettivamente riconosciuto Guaidó come Presidente della Repubblica. Il primo dubbio in tal senso nasceva dal fatto che in applicazione della dottrina formulata nel 1980 dall’allora Ministro degli esteri Lord Carrington e mai formalmente superata, il Foreign Office avrebbe dovuto astenersi dal compiere riconoscimenti formali di governo, limitandosi di volta in volta a valutare che tipo di rapporti intrattenere con i governi stranieri (sentenza, par. 29). La High Court, rifacendosi anche alla recente sentenza Breish, ha però ritenuto di non accordare importanza a questa circostanza, sottolineando come la dottrina Carrington non fosse vincolante per i governi successivi, e concludendo che “the meaning of the 4 February 2019 statement by HMG must depend, not upon the 1980 policy statement, but upon the words of that statement understood in their factual context” (sentenza, par. 30).

La seconda obiezione si fondava sulla circostanza che il Regno Unito avesse continuato ad intrattenere rapporti diplomatici con il Governo Maduro anche dopo il 4 febbraio, il che avrebbe suggerito l’esistenza di un riconoscimento tacito del Governo Maduro tale da portare a rivalutare la portata della dichiarazione del Ministro Hunt. Se il riconoscimento tacito di governo è pacificamente riconosciuto dalla dottrina (Brownlie, p. 139; Talmon, capitolo 2, nota 1; Oppenheim’s International Law, 1955, par 50), al punto che, per Talmon, “recognition statements alone are seldom a safe guide to the intention of the recognizing State” (p. 42), il giudice Teare ha però rifiutato di prendere in considerazione le affermazioni relative alla continuazione delle relazioni diplomatiche tra il Governo Maduro e il governo del Regno Unito, affermando di non poter accettare l’idea che “where HMG has unequivocally recognised a person as President it is constitutionally appropriate for the court to investigate the conduct of HMG with a view to contradicting that unequivocal recognition” (sentenza, par. 47).

Il Governo Maduro ha inoltre sostenuto che la dichiarazione del 4 febbraio andasse interpretata conformemente al diritto internazionale e che un riconoscimento del governo Guaidò da parte del Governo britannico avrebbe costituito un’ingerenza incompatibile con il principio di non intervento, soprattutto se letto alla luce delle ingenti riserve auree venezuelane sottoposte alla giurisdizione britannica (sentenza, par. 39). Il giudice Teare ha tuttavia ritenuto che la dichiarazione del Ministro degli esteri esprimesse le intenzioni del Governo in maniera sufficientemente chiara e non richiedesse di essere interpretata alla luce del diritto internazionale (ibid). Infine, il Governo Maduro ha contestato la legittimità della nomina del direttivo della BCV effettuata da Guaidò in quanto fondata su un atto legislativo nullo ed attuata con atti esecutivi non promulgati e pubblicati secondo le forme di legge, come peraltro affermato anche dal Tribunale Supremo di Giustizia del Venezuela (par. 51). in forza del principio dell’act of State, la High Court ha però ritenuto di non potersi pronunciare sulla legittimità di atti legislativi ed esecutivi di uno Stato straniero (par. 93).

Decidendo sulla base della posizione espressa dal Governo del suo paese, il giudice Teare ha seguito un modus operandi comune a molte giurisdizioni nazionali (v. qui, p. 28, e qui). Se ciò facilita il compito del giudice ed evita che diversi organi dello Stato si contraddicano, tale approccio ha però anche dei punti deboli. In particolare, esso presuppone acriticamente la liceità internazionale del riconoscimento effettuato dal Governo, assurgendo tale atto politico a standard di legalità interna. Nella decisione della High Court, ad esempio, il diritto internazionale non è usato per valutare la legalità del riconoscimento effettuato dal Governo, ma è considerato una chiave per interpretare la volontà di quest’ultimo; chiave inutile, per di più, se l’espressione di volontà è considerata sufficientemente chiara dal giudice. Presupponendo che il riconoscimento di governo sia un atto analizzabile solo sul piano dell’opportunità politica, e sul quale solo un organo politico può pronunciarsi, tale approccio si scontra però con anni di riflessioni della dottrina internazionalistica sul rapporto tra riconoscimento di governo e principio di non intervento. E per quanto esista una certa confusione sui criteri sulla cui base va individuato il governo dello Stato straniero, non è affatto detto che in determinate circostanze un riconoscimento di governo, o gli atti ad esso conseguenti, non possano violare il principio di non intervento, sollevando la questione della responsabilità internazionale dello Stato che effettua il riconoscimento. Almeno in principio, l’atto politico può quindi essere analizzato dal punto di vista della sua compatibilità con il diritto internazionale.

Scrivendo nel 1945, Lauterpacht affermava senza esitazioni che il riconoscimento prematuro di governo costituisse un atto in violazione del diritto internazionale. Come da lui stesso affermato: “it is not for outside States to administer to the de jure government the coup de grâce by transferring full recognition to the victorious opponent. In so far as such withdrawal of recognition from the lawful govern has result of hastening the final victory of the insurgents, it may commend itself for humanitarian reasons, but it is open to the charge of abandonment of the attitude of impartiality and, more generally, of an unlawful act of intervention” (p. 824). Quanto alla differenza tra riconoscimento prematuro e riconoscimento legittimo, per Lauterpacht il criterio decisivo andava individuato nel controllo effettivo del territorio, corretto da una presunzione di legittimità a favore del governo in carica al momento dello scoppio dell’insurrezione o della guerra civile. Fatta salva questa presunzione, egli era fortemente contrario all’utilizzo del criterio di legittimità costituzionale, che definiva “clearly illogical in a world in which all governments owe their origin to a revolutionary event in a more or less distant past”, e che riteneva ormai superato (p. 832).

Da allora, la questione di quali siano i criteri per individuare il governo di uno Stato straniero sembra essersi complicata. La prassi degli Stati suggerisce che il criterio di legittimità costituzionale non sia caduto in disuso, e che anzi, sia oggi molto più utilizzato che ai tempi di Lauterpacht, come testimoniato dal numero importante di Stati – compreso il Regno Unito – che riconoscono Guaidó Presidente del Venezuela in forza di una particolare interpretazione della Costituzione venezuelana (si veda qui). La stessa prassi tuttavia, sembra indicare che il controllo effettivo rimane il principale criterio per individuare il governo di uno Stato straniero. A tal riguardo, sebbene la risoluzione 3/2018 dell’International Law Association (ILA), approvata alla Conferenza di Sidney, affermi che “the various approaches taken have not reflected firmly established criteria for assessing governmental legitimacy”, i rapporti preparatori redatti dal Comitato su Recognition and non-recognition in International Law sembrano invece indicare che, a fronte di una varietà di criteri, quello dell’effettività sia di gran lunga prevalente nella pratica degli Stati. Lo stesso Comitato ha del resto affermato che “with regard to the recognition of governments, effectiveness seems to be a criterion for such recognition in the view of ‘almost all’ legal sources consulted in preparing the Third Report” (p. 17). Gran parte della dottrina sembra condividere l’opinione di Brownlie, secondo cui “the standard set by international law is so far the standard of secure de facto control of all or most of the state territory” (p. 142), anche se, per alcuni commentatori, il riconoscimento sarebbe ormai una questione di equilibrio tra diversi criteri. Secondo Roth, per esempio, il controllo effettivo fonderebbe una presunzione di legittimità (p. 218), ossia il punto di partenza di una valutazione che può però essere completata alla luce di altri criteri.

Nonostante questa incertezza, pare legittimo chiedersi se il riconoscimento di un nuovo governo che non controlla in modo effettivo il territorio dello Stato non equivalga – nelle parole di Lauterpacht – ad assestare un “colpo di grazia”, o quantomeno un colpo scorretto, al governo che invece controlla una parte consistente del territorio, e non violi quindi il principio di non intervento. Anche se il giudice Teare ha ritenuto di non occuparsi della questione con riferimento al caso venezuelano, la questione dell’incompatibilità del riconoscimento britannico con il diritto internazionale, sollevata dal Governo Maduro, appare tutt’altro che priva di fondamento, e ciò non solo in ragione dello scarso controllo esercitato da Guaidó sul territorio (limite peraltro ammesso dalla stessa difesa di Guaidó: v. il par. 36 della sentenza). Anche la scelta di imporre un ultimatum a Maduro, condizionando il riconoscimento di governo all’indizione di nuove elezioni, sembra rilevante, in quanto indica chiaramente l’intenzione di utilizzare il riconoscimento come strumento per esercitare un’ingerenza nelle questioni interne del Venezuela. Inoltre, se tale modo di procedere ignora completamente il criterio di effettività, esso fa anche sorgere dei dubbi in merito alla genuinità dell’invocato argomento costituzionale. Non si capisce infatti come un presidente non ancora considerato costituzionalmente legittimo il 26 gennaio – a proclamazione già avvenuta – possa diventarlo il 4 febbraio, e solo perché Maduro non ha accettato le condizioni fissate dai governi in procinto di effettuare il riconoscimento.

Va detto, per completezza, che la questione se il semplice riconoscimento di governo possa violare il principio di non intervento è oggi più controversa di quanto non apparisse nel 1945. Se, da un lato, vi è chi ripropone la tesi di Lauterpacht senza particolari correzioni (si veda Frowein, par. 15), dall’altro lato, vi è anche chi, come Pertile, suggerisce che la violazione potrebbe derivare “non tanto dall’atto verbale del riconoscimento di governo, ma dagli atti materiali ad esso successivi e su di esso fondati come il sostegno economico e l’avvio di relazioni diplomatiche”. Anche a voler ammettere che il riconoscimento del governo Guaidó non violi in sé il principio di non intervento, quindi, rimane pur sempre la possibilità che alcuni atti conseguenti – ed in particolare la decisione di disconoscere il diritto del governo Maduro di disporre delle riserve auree del Venezuela depositate presso la Bank of England – costituiscano ingerenze incompatibili con il diritto internazionale. La stessa difesa del Governo Maduro sembra derivare l’illiceità del riconoscimento britannico più dalle sue conseguenze finanziarie che dal suo tenore letterale. Per questo, essa ha sottolineato “the context of access to foreign reserves” nel quale il riconoscimento ha avuto luogo (sentenza, para 39). Bisogna peraltro ammettere che se letto alla luce di questo contesto – che né il Governo del Regno Unito né il Governo Maduro potevano ignorare – l’ultimatum di fine gennaio 2019 assume i contorni di un’ingerenza particolarmente intensa, in quanto prefigurava, in modo indiretto ma chiarissimo per le parti in causa, serissime conseguenze finanziarie qualora il Governo Maduro non avesse rispettato le condizioni di Londra. Conseguenze che si sono prontamente verificate quando la Bank of England ha rifiutato di seguire le istruzioni del presidente della BCV nominato da Maduro, e che la High Court of Justice ha poi ratificato.

La gravità delle conseguenze del riconoscimento è stata denunciata anche dal Rappresentante permanente del Venezuela presso le Nazioni Unite a New York in alcune lettere al Presidente del Consiglio di Sicurezza. Per dare un’idea del livello di indignazione, già nelle prime righe della missiva del 26 maggio 2020 la scelta della Bank of England di disconoscere la firma del Presidente della BCV nominato da Maduro è definita “the greatest robbery in the modern history of the Bolivarian Republic of Venezuela”. È inoltre interessante notare come, nella narrazione del Rappresentante permanente, l’ingerenza sia considerata tanto più grave in quanto essa priva il Paese di risorse importanti nel bel mezzo di una pandemia. Racconta il Rappresentante permanente che, a causa della situazione economica del Paese e delle sanzioni di cui è oggetto, per il Venezuela sarebbe stato pressoché impossibile (“nearly impossible”) ricevere approvvigionamenti di equipaggiamento medico, medicine, mascherine ed altri rifornimenti definiti decisivi nella lotta al COVID-19 (p.2). La BCV (da intendersi il “direttivo Maduro”) avrebbe quindi concluso un accordo con lo United Nations Development Programme per l’acquisto di medicinali e strumenti medici, e parte delle riserve depositate nel Regno Unito sarebbero state destinate proprio alla conclusione di questa transazione. La Bank of England sarebbe stata informata dell’accordo e avrebbe ricevuto l’istruzione di liquidare parte delle riserve venezuelane per permettere al Venezuela di onorarlo. L’istruzione sarebbe però stata disattesa, portando il Governo Maduro ad iniziare una causa contro la Bank of England. Nella sua risposta del 29 maggio, indirizzata al Presidente del Consiglio di Sicurezza, il Chargé d’affaires del Regno Unito non ha smentito questa ricostruzione, limitandosi a ricordare che la Bank of England è un’istituzione autonoma che non riceve istruzioni dal Governo. Ciò non ha impedito al Rappresentante permanente del Venezuela di caratterizzare la scelta della Bank of England come l’esempio di un’attitudine del Regno Unito ostile al Venezuela, contraddistinta dal perseguimento di “regime change policies“ in palese violazione dei principi fondamentali delle Nazioni Unite, incluso il principio di non intervento (lettera dell’8 giugno).

Al netto della retorica, è chiaro che la decisione del Regno Unito di riconoscere Guaidò quale presidente ad interim abbia avuto conseguenze giuridiche – almeno sui beni venezuelani nel Regno Unito – e materiali che vanno ben al di là delle mere relazioni diplomatiche tra i due Paesi.  Inoltre, il contesto pandemico fa sorgere delle domande a proposito dell’importanza del requisito del controllo effettivo. Diversi autori hanno criticato questo criterio in quanto eccessivamente vicino alla nozione austiniana di norma giuridica come “order-backed-by-threat” (v. Aristodemou), auspicando l’adozione del criterio di legittimità costituzionale, visto come più favorevole all’ideale di democrazia (De Wet). Il problema è serissimo, soprattutto in una regione del mondo con una storia marcata da sanguinose dittature militari come l’America Latina. Situazioni come la presente pandemia evidenziano però i limiti di quest’approccio. Un minimo di controllo del territorio è infatti necessario per contenere e combattere un’epidemia. Per quanta legittimità e sostegno popolare ed internazionale possa avere Guaidó, l’impressione è che, nel contesto attuale, egli possa fare ben poco per prevenire e ridurre il contagio o per garantire assistenza medica alle persone colpite dalla malattia. Talmon ricorda come “a government, as a rule, does not own property but holds in trust the property owned by its State” (p. 199). Riconoscere un governo che manca totalmente di controllo del territorio significa quindi indicare come legittimo rappresentante di uno Stato straniero un’entità che non ha il potere effettivo di svolgere le prerogative dello Stato. Ciò è problematico, soprattutto se il riconoscimento autorizza questa entità a prendere possesso delle proprietà dello Stato sottoposte alla giurisdizione dello Stato riconoscente; risorse che chi controlla il territorio non potrà utilizzare. Probabilmente la questione non può essere risolta squalificando l’uno o l’altro criterio, poiché entrambi rispondono a valori riconosciuti dal diritto internazionale contemporaneo. Pur non negando che il controllo effettivo possa essere utilizzato insieme ad altri criteri, ci si chiede però se la scelta di ignorarlo completamente non rischi di portare a conclusioni paradossali.

In conclusione, vi è qualcosa di logico ed istintivamente giusto nell’idea che il diritto internazionale sanzioni quei riconoscimenti compiuti in modo arbitrario al solo fine di ostacolare un avversario politico o causare un cambio di regime. Seppur scritto in un’epoca ormai remota, l’articolo di Lauterpacht sul riconoscimento di governo sembra ispirarsi a quest’idea. La semplicità di questo principio sembra però infrangersi sullo scoglio dell’individuazione di un criterio applicativo. Tutto o quasi sembra poter essere giustificato scegliendo di volta in volta il criterio del controllo effettivo o quello della legittimità costituzionale, a seconda delle convenienze contingenti. L’impressione è che tutti i riconoscimenti siano in fondo motivati da logiche politiche lungo le linee dell’opposizione amico-nemico. I riconoscimenti ottenuti da Guaidó e Maduro non dicono molto della situazione venezuelana, ma dicono chiaramente chi sta con gli USA e chi con Cina e Russia. Se ogni riconoscimento è in qualche modo un tentativo di influenzare la politica di altri Stati, ciò non può che avere un impatto sulla percezione della gravita dell’ingerenza che da esso consegue. Come osserva Pertile, a fronte della sempre maggiore disinvoltura con cui gli Stati pretendono di pronunciarsi su questioni di legittimità concernenti altri governi, il riconoscimento prematuro è visto come un’ingerenza tutto sommato minore. Resta da chiarire se il riconoscimento di un’entità priva di controllo del territorio possa essere considerata in violazione del principio di non intervento in ragione degli atti ad essa conseguenti, nel nostro caso la scelta di disconoscere il diritto di un governo di disporre di un miliardo di dollari. In caso di risposta negativa dovremmo probabilmente chiederci se il principio di non intervento trova davvero applicazione al di fuori del caso dell’uso della forza. Questo però dovrebbero dirlo i giudici. A tal proposito, sarebbe utile che le corti nazionali non risolvessero la questione attenendosi in modo meccanico all’intenzione manifestata dall’esecutivo, ma accettassero l’idea che tale riconoscimento potrebbe anche essere illecito, e discutessero del problema sulla base del diritto internazionale, contribuendo a svilupparlo e chiarirlo. Sognare non costa niente.

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Luca Pasquet

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