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La Corte di giustizia si pronuncia sull’obbligo degli Stati membri di riconoscere il rapporto di filiazione tra una minore e due madri

Francesca Maoli (Università di Genova)

1. Nella recente sentenza resa nel caso C-490/20 PPU, V.M.A., la Corte di giustizia, Grande Sezione, si è pronunciata sulla portata dei diritti di libera circolazione e di soggiorno negli Stati membri dell’Unione europea, con importanti riflessi, anche sul piano del diritto internazionale privato, rispetto alla questione della circolazione degli status familiari nello spazio giudiziario europeo (sul tema v. ex multis Marongiu Buonaiuti; Tomasi, La tutela degli status familiari nel diritto dell’Unione europea tra mercato interno e spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Cedam, Padova, 2007, p. 104). Infatti, seppure con effetti limitati al godimento dei diritti derivanti dalla cittadinanza europea, la Corte ha dovuto interrogarsi sulla capacità o meno del diritto dell’Unione di imporre agli Stati membri il riconoscimento di un legame di filiazione tra un bambino e i propri genitori dello stesso sesso, nel momento in cui tale legame è già stato riconosciuto in un altro Stato membro. Si tratta della prima volta in cui la Corte è stata richiesta di pronunciarsi sulla controversa questione del legame genitoriale in tali ipotesi (v. ulteriori commenti alla sentenza qui, qui e qui).

Il rinvio pregiudiziale, disposto dall’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria), ha avuto origine dal rifiuto da parte del Comune di Sofia di rilasciare un certificato di nascita per una bambina, nata nel 2019 in Spagna e figlia di due mamme, una cittadina bulgara ed una cittadina del Regno Unito. Le donne vivono in Spagna dal 2015 e si sono sposate a Gibilterra nel 2018. Nel certificato di nascita della bambina, rilasciato dalle competenti autorità spagnole, entrambe le donne sono indicate come «madre». Una delle madri della bambina aveva richiesto al Comune di Sofia (distretto di Pancharevo) il rilascio di un atto di nascita, necessario per procedere con la richiesta di un documento di identità per la figlia. A sostegno della propria domanda, aveva allegato una traduzione in lingua bulgara, legalizzata e autenticata, dell’estratto del registro dello stato civile di Barcellona, relativo all’atto di nascita della minore. La richiesta si fondava, peraltro, sulla cittadinanza bulgara della bambina, acquisita iure sanguinis ai sensi della legge bulgara. La richiesta era stata tuttavia respinta dal Comune, in quanto il modello di atto di nascita bulgaro impediva di inserire più di una persona come «madre» e – allo stesso tempo – la richiedente si era rifiutata di fornire prove circa l’identità della madre biologica della minore. Da qui il ricorso avverso la decisione di rigetto, proposta dalla richiedente al Tribunale amministrativo di Sofia, il quale ha deciso di rivolgersi alla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.

Il giudice del rinvio, nel rivolgere quattro distinte questioni pregiudiziali alla Corte, si interrogava sulla portata degli obblighi derivanti dalla normativa UE in materia di libera circolazione e soggiorno (sulla quale v. ex multis Nascimbene e Rossi Dal Pozzo; Queirolo e Schiano di Pepe). In particolare, secondo la rielaborazione delle questioni operata dalle Corte di giustizia, il Tribunale locale si chiedeva se il rifiuto da parte delle autorità bulgare di registrare la nascita di un cittadino bulgaro, avvenuta in un altro Stato membro e attestata da un atto di nascita che indica due madri, rilasciato dalle autorità competenti di quest’ultimo Stato membro, violi i diritti conferiti a detto cittadino dagli art. 20 e 21 TFUE, nonché dagli art. 7, 24 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. D’altra parte, l’eventuale obbligo imposto alle autorità bulgare dalla normativa UE – relativo al rilascio del documento di identità nelle ipotesi come quella in esame – potrebbe pregiudicare l’ordine pubblico e l’identità nazionale della Repubblica di Bulgaria, la cui normativa in materia di filiazione non prevede la possibilità di menzionare in un atto di nascita due genitori dello stesso sesso. Per tale ragione, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se il rifiuto delle autorità bulgare di rilasciare il documento potesse, in questo caso, essere giustificato alla luce dell’art. 4, par. 2, TUE (la ben nota clausola di identità nazionale).  

Affrontando una questione molto delicata, in ragione delle rilevanti differenze esistenti negli ordinamenti degli Stati membri (v. i contributi in Boele-Woelki e Fuchs), la decisione della Corte di giustizia rappresenta una importante svolta per la tutela degli status familiari dei partner di coppie omosessuali e dei loro figli. Pur limitando gli effetti delle proprie conclusioni al godimento dei diritti di libera circolazione e soggiorno nel territorio dell’Unione europea, la Corte afferma l’obbligo degli Stati membri di riconoscere un rapporto di filiazione tra un minore ed entrambi i genitori dello stesso sesso, se tale rapporto è già stato legalmente accertato da un altro Stato membro. In questo senso, la decisione si inserisce nel contesto delle recenti iniziative di diritto internazionale privato attualmente intraprese sia a livello europeo, sia a livello internazionale: il riferimento è, in particolare, alla possibile proposta di regolamento UE in materia di riconoscimento reciproco della genitorialità tra gli Stati membri su cui sta attualmente lavorando la Commissione europea (al momento, è stata svolta la consultazione pubblica ed è stato istituito un gruppo di esperti), nonché ai lavori dell’ Expert Group on the Parentage/Surrogacy Project nell’ambito della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato.

2. Nella sentenza, la Corte di giustizia – sulla scia della sentenza Coman (C-673/16) – continua l’opera dell’Unione europea di rafforzamento della tutela delle famiglie omoparentali. Nel caso Coman (sul quale si vedano, ex multis, il post di Rossolillo; nonchè Lang; Scaravilli, “Il diritto alla vita familiare come strumento di estensione per via giurisprudenziale dei diritti del cittadino alla persona migrante”, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, 2020, p. 133 ss.),la Corte aveva riconosciuto il diritto di un cittadino di uno Stato terzo, che abbia legalmente contratto matrimonio con un cittadino europeo in uno Stato membro, a vedersi concedere il diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi nello Stato membro di origine del coniuge. Trattasi di un indiretto riconoscimento del vincolo coniugale agli esclusivi fini del ricongiungimento familiare, in quanto la mancata qualificazione come coniuge del cittadino di uno Stato terzo avrebbe comportato una illegittima compressione della vita familiare: al contrario, l’art. 21, par. 1, TFUE impone che la vita familiare che un cittadino europeo abbia condotto nello Stato membro ospitante possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al coniuge.

Nella sentenza V.M.A., la Corte conferma i principi già sanciti nella sentenza Coman e nella consolidata giurisprudenza pregressa, estendendoli all’ipotesi di un rapporto di filiazione intercorrente tra una minorenne cittadina europea e due madri. In primo luogo, si ricorda come i diritti connessi alla cittadinanza europea possano essere esercitati anche nei confronti dello Stato membro di cittadinanza, ed anche nell’ipotesi in cui il soggetto in questione non abbia mai esercitato il proprio diritto alla libera circolazione (a partire dalla nota sentenza Zambrano, resa nella causa C-34/09, considerata una vera e propria rivoluzione copernicana della disciplina sovranazionale sulla cittadinanza europea). Quest’ultima circostanza può ricorrere, ad esempio, nel caso in cui il cittadino europeo sia nato nello Stato membro (diverso da quello di cittadinanza) che ospita i suoi genitori, come già accaduto nel caso Bajratari (C-93/18). In tutte le fattispecie connesse con la libertà di circolazione e soggiorno sancita dall’art. 21 TFUE, la Direttiva 2004/38/CE impone agli Stati membri di rilasciare ai loro cittadini un documento di identità (art. 4, par. 3), proprio al fine di permettere l’esercizio dei diritti sanciti dal diritto primario e dalla stessa Direttiva.

In un caso come quello in esame, la Corte sottolinea come il pieno esercizio del diritto alla libera circolazione da parte di un minore implica necessariamente che quest’ultimo deve poter viaggiare con ciascuno dei suoi genitori. Questo, anche nell’ipotesi in cui i genitori in questione appartengano allo stesso sesso, come accade nel caso di specie. È proprio con riferimento a quest’ultima circostanza che si apprezza uno dei passaggi più interessanti della sentenza, dove si afferma che lo status di genitori «è stato accertato dallo Stato membro ospitante delle medesime [la Spagna] nel corso di un soggiorno conforme alla Direttiva 2004/38» (punto 46). Infatti, «è pacifico che le autorità spagnole hanno accertato legalmente l’esistenza di un rapporto di filiazione, biologica o giuridica, tra la bimba e i suoi due genitori» (punto 48).

Secondo una possibile interpretazione di questi passaggi, nello stabilire l’esistenza di un obbligo di riconoscimento del rapporto di filiazione da parte degli Stati membri, la Corte di giustizia sembra (almeno indirettamente) affermare che lo Stato membro ospitante (in cui un cittadino europeo risieda ai sensi della Direttiva 2004/38/CE) sia anche lo Stato competente ad accertare lo status familiare, con effetti che si estenderebbero a tutti gli altri Paesi europei. Nel caso in esame, tuttavia, lo Stato ospitante coincide con il Paese in cui il minore è nato. Come precisato dall’Avvocato Generale nelle sue conclusioni (al punto 61), le due madri hanno acquisito lo status di genitore in forza del diritto spagnolo, applicabile in quanto le norme di diritto internazionale privato spagnole collegano la determinazione della filiazione al luogo di residenza abituale del minore. L’ordinamento spagnolo, quindi, ha formalizzato l’accertamento del rapporto di filiazione in un atto di nascita rilasciato dalle competenti autorità, con la conseguenza che «gli altri Stati membri sono obbligati a riconoscere tale documento» (punto 50).

L’applicazione della legge dello Stato in cui il minore è nato, peraltro, richiama uno degli approcci emersi nell’ambito dei lavori del gruppo di esperti coinvolti nel già citato Parentage/Surrogacy Project della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato: nell’individuare i possibili criteri di collegamento per la determinazione della legge applicabile all’accertamento di un rapporto di filiazione, si è fatto riferimento allo Stato di nascita. In via successiva, nell’ipotesi in cui nessuno dei genitori risulti abitualmente residente in quest’ultimo Stato, criterio principale sarebbe eventualmente sostituito dall’ordinamento in cui il genitore che ha dato alla luce il minore ha la propria residenza abituale. Da ultimo, si è espressa la possibilità di fare ricorso al criterio della residenza abituale del minore soltanto in via di eccezione, qualora il rapporto di filiazione si sia costituito per atto pubblico o per decisione dell’autorità giurisdizionale dopo la nascita e solo se l’accertamento del legame vada a beneficio del bambino. 

Nonostante sia possibile inferire dalle motivazioni della sentenza l’opportunità di considerare il criterio fattuale della residenza (nello Stato membro ospitante), oppure del Paese di nascita, per la determinazione dello Stato membro competente ad accertare il rapporto di filiazione, la Corte di giustizia si è astenuta dall’approfondire tale passaggio, attenendosi ad una rigorosa determinazione degli obblighi che gravano sugli Stati membri in base alla normativa UE in materia di libera circolazione delle persone. In altre parole, nel meglio definire la nozione di «discendente» ai sensi e per gli effetti della Direttiva 2004/38/CE, la Corte di giustizia ribadisce la necessità di garantire il pieno esercizio del diritto alla libera circolazione ed al soggiorno dei minori cittadini europei. Un risultato che non potrebbe essere raggiunto se non si riconoscesse il rapporto di filiazione in capo ad entrambi i genitori, i quali hanno il diritto di accompagnare il figlio di cui hanno la custodia effettiva e che pertanto devono poter disporre di un documento che le menzioni come persone autorizzate a viaggiare con lui. Al fine di raggiungere questo risultato, la Corte introduce l’obbligo, per gli Stati membri, di riconoscere l’accertamento del rapporto di filiazione già operato da un altro Stato membro: nel caso di specie, si tratta dello Stato in cui il minore è nato e risiede con la sua famiglia.

3. Molto interessante, inoltre, risulta il passaggio argomentativo successivo della Corte, ove si esamina la compatibilità dell’obbligo di riconoscimento dello status – seppure ai soli fini dell’esercizio dei diritti connessi alla cittadinanza europea – con l’art. 4, par. 2, TUE. Il giudice del rinvio, come si ricorderà, si era infatti chiesto se la disposizione da ultimo citata potesse giustificare il rifiuto delle autorità bulgare di emettere un atto di nascita, qualora il riconoscimento di un legame genitoriale tra un minore e le sue due madri fosse suscettibile di pregiudicare l’ordine pubblico e l’identità nazionale della Repubblica di Bulgaria. Sul primo degli istituti da ultimo citati, è opportuno precisare che l’ordine pubblico in questione è quello indicato dai Trattati istitutivi quale deroga alle libertà di circolazione: in questo senso sembra esprimersi la Corte di giustizia, nel momento in cui afferma che «la nozione di “ordine pubblico”, in quanto giustificazione di una deroga a una libertà fondamentale, dev’essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione» (punto 55; in argomento Deana).

La Corte di giustizia, nel rigettare l’argomentazione proposta dal giudice del rinvio, ricorda innanzitutto come lo status delle persone sia una materia di competenza degli Stati membri, i quali sono «liberi di prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio tra persone dello stesso sesso e la genitorialità di queste ultime» (punto 52 della sentenza). Allo stesso tempo, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione, compreso il diritto primario che stabilisce la libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini europei (il più volte citato art. 21 TFUE, su cui v. Caggiano) e il diritto derivato che di tale libertà costituisce attuazione e specificazione. È solo ai fini del diritto dell’Unione che sussiste l’obbligo di riconoscimento dello status familiare e il correlativo obbligo di rilasciare un documento di identità. Ne consegue, chiarisce la Corte, che gli Stati membri non sono obbligati a prevedere nel loro diritto interno la genitorialità di persone dello stesso sesso o a riconoscere un siffatto rapporto di filiazione ai fini diversi dall’esercizio dei diritti derivanti dall’ordinamento dell’Unione (sull’assenza di un obbligo, per gli Stati, di riconoscere gli status familiari validamente costituiti in base ad un ordinamento straniero v. Biagioni, «On Recognition of Foreign Same-Sex Marriages and Partnerships», in Gallo et al., p. 359 ss.)

La circostanza per cui il riconoscimento dello status familiare sia limitato ai diritti connessi alla cittadinanza europea è sufficiente, secondo la Corte di giustizia, ad escludere che il correlativo obbligo, gravante sugli Stati membri, violi l’identità nazionale o minacci l’ordine pubblico. Al contrario, gli ordinamenti nazionali devono astenersi dall’ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone, soprattutto quando una misura restrittiva non possa essere giustificata alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Rilevano, a tale riguardo, gli art. 7 e 24, che sanciscono rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto a che si tenga in primaria considerazione l’interesse superiore del minore.

In questo passaggio argomentativo, emerge l’interpretazione che la Corte di giustizia fornisce dell’art. 7 della Carta, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. In particolare, secondo quest’ultima, l’esistenza di una vita familiare costituisce una questione di fatto e una delle componenti fondamentali del diritto in questione consiste nella possibilità per un genitore ed il figlio di essere insieme (v. Corte EDU, K. e T. c. Finlandia, §§150 e 151). Ciò con riguardo sia alle famiglie in cui i genitori siano di sesso differente, sia alle famiglie omoparentali (si rinvia, in particolare, alla sentenza già citata nella sentenza Coman: Corte EDU, Orlandi e a. c. Italia, §143; in argomento v. Franzina; Pustorino, “Il diritto alla vita priva e familiare in relazione alle questioni di orientamento sessuale (artt. 8 e 14 CEDU)”, in Di Stasi, p. 679 ss.). L’art. 7, inoltre, deve essere letto in combinato disposto con l’art. 24 della Carta; a sua volta, il principio del superiore interesse del minore è letto dalla Corte di giustizia con riferimento al consolidato quadro normativo di cui alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, cui l’art. 24 si ispira La Corte precisa che, in ossequio all’art. 2 della Convenzione da ultimo citata, il quale sancisce il diritto alla non discriminazione, nessun bambino dovrebbe essere discriminato nell’esercizio dei suoi diritti fondamentali per la sola ragione che i propri genitori appartengono allo stesso sesso. In altre parole, negare la possibilità al minore cittadino europeo di circolare liberamente nel territorio dell’Unione con uno dei due genitori, a causa dell’appartenenza di questi ultimi allo stesso sesso, comporterebbe una ingiustificata discriminazione rispetto ad un bambino nato da una coppia eterosessuale. Una posizione che, peraltro, fornisce occasione di ulteriori riflessioni circa il rapporto tra il principio dell’interesse superiore del minore, le sue origini e la sua identità personale

4. Nella sentenza in commento, la Corte di giustizia si assesta su una posizione garantista nei confronti della vita familiare omoparentale nell’ordinamento dell’Unione europea, che trova sostegno nei diritti fondamentali sanciti dalla Carta. La decisione ha costituito l’occasione per affermare chiaramente che tutti gli Stati membri devono astenersi dal separare i componenti di una famiglia omoparentale, quando questi intendano circolare nel territorio dell’Unione. L’obbligo degli Stati membri di riconoscere il rapporto di genitorialità tra un minore ed entrambi i suoi genitori dello stesso sesso risulta di diretta derivazione dal diritto primario dell’Unione e non è ostacolato nemmeno dalla clausola di identità nazionale prevista dall’art. 4, par. 2 TUE, alla luce del rapporto di stretta funzionalità tra tale obbligo e l’esercizio dei diritti di libera circolazione e soggiorno. Invero, è interessante osservare come la Corte, nel proprio ragionamento, sembra in realtà sorvolare sulla ipotetica invocabilità della clausola da ultimo citata da parte della Bulgaria nel caso di specie: ciò quasi a voler implicitamente affermare che la tutela delle identità nazionali degli Stati membri non possono, in ogni caso, prevalere sul rispetto dei diritti fondamentali dei minori.

Peraltro, quasi a volere anticipare eventuali rinvii pregiudiziali futuri, la Corte fa salve le sue conclusioni anche nell’ipotesi in cui la minore non avesse posseduto la cittadinanza bulgara (e, di conseguenza, europea). In tale ipotesi, la cittadinanza europea di uno dei genitori sarebbe stata sufficiente a qualificare il minore (nonché l’eventuale partner cittadino di uno Stato terzo) come discendente (e coniuge) di un cittadino dell’Unione ai sensi e per gli effetti della Direttiva 2004/38/CE.

La decisione della Corte di giustizia, fondata anche sulla prospettiva del rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta UE, segna un importante avanzamento nella tutela familiare nell’ordinamento dell’Unione europea, in linea con le recenti iniziative intraprese dalle istituzioni europee (si veda, ad esempio, la Strategia per l’uguaglianza delle persone LGBTIQ 2020-2025, comunicata dalla Commissione il 12 novembre 2020). Peraltro, emerge dalle motivazioni della Corte che il soggetto principale a cui deve essere garantita una adeguata tutela è il minore, dalla cui prospettiva viene esaminato – in particolare – il diritto fondamentale al rispetto della vita familiare (punti 59 e 62 della sentenza). Ciò in aggiunta alla evidente valorizzazione del principio del superiore interesse del minore.

D’altro canto, la protezione offerta dal diritto dell’Unione rimane limitata alle famiglie che ricadono nel suo campo di applicazione. Come è stato osservato, in altre situazioni dove non entra in gioco il godimento dei diritti connessi alla cittadinanza europea, e nell’ipotesi in cui uno Stato membro dovesse negare il riconoscimento del rapporto familiare, l’unica tutela a disposizione rimane quella offerta dalla CEDU. Sul punto, come noto, la Corte di Strasburgo si assesta ancora su posizioni molto caute (almeno per quanto riguarda il riconoscimento del rapporto di filiazione nell’ipotesi di minori nati da maternità surrogata: si vedano il parere reso ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU, per il quale si rimanda ai post di Anrò e Di Blase, nonché le sentenze S.H. c. Polonia; D. c. Francia, su cui v. Lopes Pegna).  

Dalla prospettiva della circolazione degli status, le motivazioni della sentenza risultano particolarmente interessanti nel momento in cui si sancisce l’esistenza, nell’ordinamento dell’Unione europea, di un obbligo di riconoscimento gravante sugli Stati membri, ancorché limitato ai casi che ricadono nel campo di applicazione della normativa europea in materia di libera circolazione e soggiorno. Tali conclusioni potranno probabilmente costituire valide indicazioni nel contesto della creazione del nuovo regolamento in materia di riconoscimento reciproco della genitorialità tra gli Stati membri. In particolare, secondo una possibile interpretazione, la sentenza V.M.A. sembra suggerire l’opportunità di orientarsi verso il criterio fattuale della residenza per la determinazione dello Stato membro competente ad accertare il rapporto di filiazione. La Corte di giustizia, infatti, sembra indirettamente affermare che l’obbligo di riconoscimento sussiste nel momento in cui tale rapporto sia stato accertato dallo Stato membro che ospita il cittadino europeo ai sensi della Direttiva 2004/38/CE. D’altra parte, come già osservato, le circostanze del caso di specie determinano una coincidenza tra lo Stato membro ospitante e il luogo in cui è nato il minore.

Rimangono, tuttavia, diversi elementi controversi, che dovranno essere risolti in sede di definizione del nuovo regolamento. Se la determinazione dello Stato di nascita (ai fini dell’individuazione della legge applicabile) potrebbe risultare più agevole, maggiori difficoltà potrebbero sorgere se si valorizzasse il criterio della residenza (del minore o dei genitori) in uno Stato membro in base alla normativa sulla circolazione ed il soggiorno. Qualora la Commissione europea decidesse di intraprendere questa strada, occorrerà in primo luogo definire le condizioni alle quali tale residenza possa considerarsi conforme al diritto dell’Unione, e quale è il momento rispetto al quale occorrerà accertare tale requisito. Ciò, peraltro, condurrebbe ad una disciplina degli status genitoriali strettamente interconnessa con le disposizioni in materia di libera circolazione e soggiorno (e, da ultimo, alla cittadinanza europea).

In secondo luogo, dovrà stabilirsi quali forme di accertamento beneficeranno del regime di circolazione. Il regolamento potrebbe, infatti, imporre la formalizzazione del legame di filiazione in un apposito certificato ai fini della circolazione del relativo status, oppure attestarsi su metodi diversi, tramite l’adozione di criteri di collegamento che prevedano l’applicazione di regole distinte a seconda delle modalità previste dall’ordinamento nazionale interessato. Un modello certificatorio (ad esempio, sulla falsariga di quello del certificato successorio europeo) avrebbe il vantaggio di ridurre le differenze esistenti tra gli ordinamenti degli Stati membri e di migliorare la comprensione reciproca delle regole che sottendono l’accertamento del rapporto di filiazione, agevolando la circolazione del relativo status.

Infine, sarà interessante osservare se la proposta di regolamento conterrà una disciplina sulla circolazione di un documento che accerta il rapporto di filiazione, adottato dalle competenti autorità di uno Stato terzo e già riconosciuto in uno Stato membro dell’Unione europea. La questione è, naturalmente, di rilevanza con riferimento alle ipotesi di bambini nati attraverso maternità surrogata, in un paese terzo che ammetta il ricorso a tale forma procreativa, allo scopo di aggirare i divieti eventualmente esistenti in uno Stato membro (v. Baruffi, “Co-genitorialità same-sex e minori nati con maternità surrogata”, in Famiglia e diritto, 2017, p. 674 ss.; Tonolo; Vettorel, “International Surrogacy Arrangements: Recent Developments and Ongoing Problems”, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2015, p. 523 ss.). Se il nuovo regolamento imporrà (o non escluderà) la circolazione di un atto pubblico o di un provvedimento giurisdizionale di un paese dell’Unione europea, che attesti il riconoscimento di un rapporto di filiazione costituito in uno Stato terzo, l’ingresso e la circolazione nell’Unione di status familiari costituiti per il tramite della maternità surrogata risulterebbe ulteriormente agevolato.

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