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Malintesi e sottintesi rispetto alla proposta di regolamento UE in tema di filiazione

Giacomo Biagioni (Università di Cagliari, Membro della Redazione)

1. Contrariamente a quanto accaduto sino ad oggi per altri strumenti dell’Unione in materia di cooperazione giudiziaria civile, che sono stati adottati senza suscitare particolare attenzione se non per gli studiosi della materia e gli operatori del diritto, la recente proposta della Commissione europea di un regolamento in tema di filiazione (su cui v. Carpaneto, Danieli) sembra aver attratto immediatamente un’ampia copertura mediatica. In particolare, in Italia l’attenzione, anche in combinazione con taluni sviluppi dell’ordinamento interno (e precisamente la sentenza 30 dicembre 2022, n. 38162, della Corte di cassazione a Sezioni Unite, che ha confermato la non trascrivibilità di una sentenza straniera attestante il rapporto di filiazione, se il minore è nato da maternità surrogata; la conseguente circolare n. 3/2023 del Ministero dell’Interno e quella del Prefetto di Milano che ha ordinato al Comune di non rilasciare certificati anagrafici recanti l’indicazione di genitori dello stesso sesso, su cui v. ora la risoluzione del Parlamento europeo del 30 marzo 2023), si è concentrata essenzialmente sui possibili effetti del futuro atto rispetto al riconoscimento del rapporto di filiazione da maternità surrogata o comunque in relazione a coppie same-sex.

Tale peculiare situazione si giustifica probabilmente anche in ragione della particolare enfasi posta dalla stessa Presidente della Commissione von der Leyen sull’importanza politica dell’iniziativa legislativa in questione (che era stata preannunciata nel discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre 2020): questo indirizzo politico ha trovato successivamente riscontro nella chiara presa di posizione contenuta nella proposta stessa rispetto agli obiettivi che essa si prefigge e che hanno indotto la Commissione europea a inserirla all’interno della strategia dell’Unione per l’uguaglianza LGBTIQ. In tal senso, la proposta sembra dunque essersi posta in un’ottica piuttosto diversa da quella dei precedenti atti dell’Unione in materia di cooperazione giudiziaria civile, che spesso si sono imposti proprio grazie alla loro neutralità rispetto alle sensibilità dei singoli Stati membri, com’è dimostrato dall’approccio “agnostico” del regolamento CE n. 2201/2003 in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale rispetto ai matrimoni same-sex (così il rapporto elaborato per conto della Commissione in vista della revisione del regolamento stesso; v. anche, in senso analogo, l’art. 22 del regolamento CE n. 4/2009, nonché il 17° considerando del regolamento UE 2016/1103 e del regolamento UE 2016/1104).

Ora, se è certamente una buona notizia che la società civile sia coinvolta in modo più attivo rispetto a proposte di atti legislativi che sono destinate a esercitare una significativa influenza sulla vita quotidiana e sulla sfera personale dei cittadini, il pericolo di una politicizzazione della tematica desta molte perplessità, specialmente in questo stadio della costruzione di un sistema di cooperazione giudiziaria civile dell’Unione europea. Infatti, per un verso, si rischia per questa via di determinare una eccessiva semplificazione delle tematiche pertinenti, comportando di fatto un’incomprensione della reale natura dello strumento e dei suoi obiettivi e metodi, che appaiono certamente suscettibili di essere largamente perfezionati, ma anche dell’iter, appena avviato,per la sua approvazione. Per altro verso, ciò conduce a trascurare la circostanza che la proposta di regolamento non costituisce un’iniziativa isolata della Commissione europea, ma si situa nel contesto di un sistema ormai molto articolato di cooperazione giudiziaria civile, nel quale taluni approdi e talune dinamiche possono dirsi consolidati e con il regolamento proposto verrebbero dunque estesi, con gli opportuni adattamenti, ad una nuova materia. Per un ulteriore verso, non si può dimenticare che, ai sensi dell’art. 81, par. 3, TFUE, gli atti in materia di diritto di famiglia richiedono l’approvazione del Consiglio all’unanimità: l’attribuzione di un accentuato significato politico alla proposta non sembra facilitare il raggiungimento delle soluzioni di compromesso che un simile metodo di votazione inevitabilmente richiede.

2. L’esistenza di tutti questi rischi trova conferma nella risoluzione adottata nella seduta del 14 marzo 2023 dalla Commissione politiche europee del Senato italiano, che ha evocato la possibile contrarietà della proposta al principio di sussidiarietà. Si tratta, come noto, di una facoltà oggi riconosciuta ai Parlamenti nazionali (e attribuita dal regolamento del Senato proprio a detta Commissione permanente) dal Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato al Trattato di Lisbona, che autorizza i Parlamenti nazionali a esprimere pareri motivati, in presenza di un numero rilevante dei quali (oltretutto più ridotto in materie ricomprese nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in quanto ritenute più “sensibili”) si impone alla Commissione europea di riconsiderare la proposta.

Tale potere, che rimane distinto dal potere di opposizione previsto dall’art. 81, par. 3, TFUE rispetto alle misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali e risulta finalizzato ad assicurare una partecipazione attiva dei Parlamenti nazionali al processo legislativo dell’Unione, ha fin qui registrato una prassi tutto sommato circoscritta e ha anzi mostrato negli ultimi anni una certa disaffezione (tanto che nel 2019, anche in concomitanza con una limitata attività di iniziativa legislativa, non è stato espresso alcun parere motivato: v. la relazione annuale della Commissione sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità e sui rapporti con i Parlamenti nazionali). Tuttavia, l’espressione di pareri motivati da parte dei Parlamenti nazionali contribuisce in modo significativo, nel sistema di checks and balances interno all’ordinamento dell’Unione come disegnato dal Trattato di Lisbona, all’applicazione del principio di sussidiarietà. D’altronde, la prassi dimostra che per questa via i Parlamenti possono anche segnalare elementi delle proposte di atti legislativi, che, pur non riferendosi esplicitamente al rispetto del principio di sussidiarietà, essi ritengano meritevoli di riflessione, così sollecitando un possibile riesame da parte delle istituzioni UE.

Alla luce di queste considerazioni, la risoluzione approvata dal Senato italiano rappresenta sicuramente uno sviluppo interessante, tanto più che rispetto alla medesima proposta anche il Senato francese ha approvato un parere motivato, sollevando dubbi sulle valutazioni di impatto acquisite dalla Commissione europea, sulla possibile invasione delle competenze degli Stati membri, sul rischio di stravolgimento dell’equilibrio raggiunto nell’ordinamento francese a seguito del parere consultivo della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 aprile 2019 in materia di maternità surrogata (su cui v., tra gli altri, Anrò, Di Blase, Feraci) e sulla delega di atti di attuazione alla Commissione.

Diversamente, la risoluzione del Senato italiano si è concentrata su alcuni aspetti più strettamente internazionalprivatistici, ma il suo contenuto richiede di essere esaminato con attenzione.

3. Va premesso che il parere motivato non paventa che la misura sia estranea all’ambito di competenza dell’Unione, e ciò neppure in relazione alla circostanza che, accanto alle consuete disposizioni in materia di giurisdizione, legge applicabile ed efficacia delle decisioni, essa contiene la previsione di un certificato europeo di filiazione. In effetti, non sembra che possano sorgere dubbi sotto tale profilo: va infatti considerato che anche precedenti misure adottate ai sensi dell’art. 81, par. 3, TFUE hanno prodotto effetti di limitata armonizzazione materiale in tema di diritto di famiglia (v., ad esempio, le disposizioni in materia di sottrazione internazionale di minori nel regolamento 2019/1111/UE). Ma soprattutto il certificato europeo di filiazione, non diretto a sostituirsi ai certificati rilasciati dalle autorità nazionali, di carattere opzionale e comunque destinato a essere rilasciato per essere utilizzato a fini probatori in un altro Stato membro (v. articoli 46 e 53 della proposta), appare piuttosto costituire, in analogia con il già esistente certificato successorio europeo (previsto dal regolamento UE n. 650/2012), un istituto inquadrabile come misura funzionale a facilitare la libera circolazione delle persone. Sotto questo punto di vista, il futuro regolamento avrebbe l’effetto di completare la garanzia dei diritti di circolazione e soggiorno assicurati ai minori cittadini europei, anche figli di genitori dello stesso sesso, sulla base degli articoli 20 e 21 TFUE e della direttiva 2004/38/CE, come riconosciuti dalla Corte di giustizia nella nota sentenza Pancharevo (causa C-490/20), i cui principi l’art. 1, par. 2, della proposta di regolamento fa espressamente salvi.

Peraltro, la Commissione parlamentare non prospetta neppure che la proposta sia complessivamente contraria al principio di sussidiarietà; e non potrebbe essere diversamente ove si consideri che essa segue numerosi altri regolamenti già adottati in tema di cooperazione giudiziaria civile, che hanno coperto svariate materie anche del diritto di famiglia. Anzi, potrebbe semmai dubitarsi dell’efficacia della misura sotto l’opposto profilo, e precisamente per il fatto che, per raggiungere pienamente gli obiettivi perseguiti in questa materia, sarebbe necessario uno strumento di portata globale, come quello prefigurato in seno alla Conferenza dell’Aja sul diritto internazionale privato (il c.d. Parentage/Surrogacy Project), in grado di favorire una cooperazione anche con Paesi extra-UE. Ad esempio, il futuro regolamento potrebbe non risolvere il problema dei minori migranti provenienti da Stati terzi, i quali rischiano oggi di trovarsi in una situazione claudicante quanto al riconoscimento della filiazione così come accertata nel loro Stato di origine (Lopes Pegna), in quanto la proposta non prevede, naturalmente, alcun meccanismo né per il riconoscimento delle decisioni né per la circolazione di atti pubblici provenienti da Stati terzi.

Di contro, la Commissione politiche europee del Senato ha individuato i rischi di una violazione del principio di sussidiarietà sotto tre distinti profili: a) il fatto che la proposta di regolamento preveda, ad avviso della Commissione stessa, un obbligo di riconoscimento del rapporto di filiazione costituito in un altro Stato membro, anche se derivante da maternità surrogata, potendosi far ricorso al limite dell’ordine pubblico solo in via eccezionale e sulla base di una valutazione caso per caso; b) la previsione di un certificato europeo di filiazione, avverso il quale non sarebbe ammesso un controllo di ordine pubblico; c) la designazione della legge applicabile con richiamo alla legge dello Stato di residenza abituale di colei che partorisce al momento della nascita anziché alla “residenza abituale pregressa, debitamente accertata, a tutela di entrambe le parti del rapporto coniugale per esempio in caso di separazione di fatto con sottrazione del minore a uno dei genitori”.

Si tratta di rilievi che solo in senso molto lato possono qualificarsi come attinenti al rispetto del principio di sussidiarietà e con i quali la Commissione parlamentare ha evidentemente voluto in effetti sottintendere una sostanziale posizione sfavorevole alla strategia politica chiaramente perseguita dalla Commissione europea. 

4. Ma, come si è anticipato, proprio perché muove da finalità essenzialmente politiche, la risoluzione tradisce una insufficiente analisi dei meccanismi di funzionamento della cooperazione giudiziaria civile in seno all’Unione europea, specialmente con riferimento alle questioni sollevate in ordine al limite dell’ordine pubblico. Rispetto a quest’ultimo, infatti, la proposta di regolamento non si discosta dalla consueta impostazione che lo configura come una nozione propria di ciascun ordinamento nazionale (Feraci), riconducibile all’insieme delle norme giuridiche ivi considerate essenziali e dei diritti riconosciuti come fondamentali in tale ordinamento (v., ad esempio, Corte di giustizia, causa C-681/13, Diageo Brands). In questo contesto, la sussidiarietà deve senz’altro ritenersi rispettata in quanto sarebbe astrattamente ammissibile che l’ordinamento nazionale conservasse una propria specifica sensibilità rispetto a determinati valori e principi in materia di filiazione, purché ritenuti di importanza fondamentale in detto ordinamento: la proposta sembra anzi prevedere, a contrario, una simile possibilità, laddove chiarisce, nel citato art. 1, par. 2, che l’ordine pubblico non potrebbe comunque essere invocato per pregiudicare i diritti di circolazione e soggiorno spettanti al minore cittadino europeo ai sensi degli articoli 20 e 21 TFUE, con implicito riferimento ai principi emersi, da ultimo, dalla sentenza della Corte di giustizia nel citato caso Pancharevo.

Ora, la risoluzione approvata vorrebbe rendere il limite dell’ordine pubblico invocabile “in via generale su tutti i casi di filiazione per maternità surrogata” (e dunque, apparentemente, sia quando la legge straniera applicabile dinanzi al giudice italiano preveda tale istituto, sia quando debba essere riconosciuto un provvedimento straniero che stabilisce la filiazione nei confronti dei genitori intenzionali) e opponibile anche ad un certificato europeo di filiazione. In tal senso, essa auspica che all’ordinamento italiano sia consentito, anche in vigenza del futuro regolamento, di applicare in queste ipotesi l’istituto dell’adozione in casi particolari secondo l’orientamento assunto dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 38162/2022.

Ma una simile ricostruzione non sembra facilmente conciliabile con il tradizionale funzionamento del limite dell’ordine pubblico sia nell’ordinamento interno, sia per come descritto nella giurisprudenza della Corte di giustizia.

In primo luogo, il carattere eccezionale di tale limite era stato già affermato rispetto alla Convenzione di Bruxelles del 1968, poiché, trattandosi di un ostacolo alla circolazione delle decisioni, esso doveva essere interpretato in modo restrittivo: appare dunque difficile immaginare che esso possa trasformarsi ora in una clausola generale, utilizzabile quasi meccanicamente a fronte di determinate modalità di costituzione del rapporto di filiazione.

Altrettanto dubbia appare l’affermazione che possa essere esclusa dalla proposta di regolamento la necessità di una valutazione caso per caso dell’eventuale contrarietà della decisione o atto straniero ovvero della legge straniera con l’ordine pubblico. Ciò non tanto perché la modalità di funzionamento dell’ordine pubblico in forza delle norme dell’Unione europea richieda di per sé un esame degli “effetti” della decisione o della legge straniera (come accade in forza degli articoli 16 e 64 della L. 218/1995) e neppure perché non sia configurabile la possibilità di un rifiuto in astratto di determinati istituti per contrasto con l’ordine pubblico (si pensi al divieto di applicare leggi che non prevedono pari condizioni di accesso al divorzio, come previsto dall’art. 10 del regolamento UE n. 1259/2010).

L’ostacolo deriverebbe semmai da due fattori di natura diversa, intrinseci alla proposta di regolamento e alla sua impostazione generale. Da un lato, vi è il fatto che le decisioni in materia di filiazione hanno spesso riguardo alla posizione di un minore e dunque si impone il richiamo al paradigma dell’interesse superiore di quest’ultimo (anche se gli articoli 31 e 39 della proposta menzionano, meno condivisibilmente, l’interesse “dei figli”, così di fatto richiedendo di tener conto anche della posizione di un adulto che agisca per il riconoscimento della filiazione, magari solo a fini ereditari), che esige espressamente una valutazione specifica delle circostanze di ciascun caso e mal si concilia con il presunto potere del giudice di invocare l’ordine pubblico in modo pressoché meccanico (Carpaneto, Lopes Pegna). Dall’altro, occorre considerare che il richiamo generalizzato all’ordine pubblico in tutti i casi di maternità surrogata potrebbe porsi in contrasto con il principio di non discriminazione tra i minori, in quanto determinerebbe una disparità di trattamento esclusivamente legata alle modalità con cui avviene la nascita e dunque potenzialmente vietata dall’art. 21 della Carta. D’altra parte, la valutazione su base casistica costituisce la normale modalità di funzionamento del limite dell’ordine pubblico anche nell’ordinamento italiano secondo la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione.

Meno incongruo appare, se collocato nel giusto contesto, il riferimento alla possibilità di transitare, ai fini del riconoscimento di un rapporto di filiazione conseguente alla surrogazione di maternità, dall’uso di strumenti alternativi (come l’adozione in casi particolari) rispetto alla mera trascrizione, che è ammesso anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in questa materia (v. la sentenza nel caso D. c. Francia del 16 luglio 2020). È pur vero che, rispetto al riconoscimento di una decisione o di un atto straniero (che è l’evenienza statisticamente più frequente rispetto ai minori nati da maternità surrogata) l’attivazione del limite dell’ordine pubblico comporta soltanto l’impossibilità di far entrare tale decisione o atto nel nostro ordinamento e non sembrerebbe potersi tradurre nella riconfigurazione del rapporto di filiazione secondo uno schema diverso da quello ivi contenuto. Pertanto, anche se il ricorso all’adozione in casi particolari al fine di attribuire efficacia al rapporto di filiazione nell’ordinamento italiano non potrebbe mai essere espressamente previsto dal futuro regolamento, quest’ultimo potrebbe contenere regole che facciano salvo il margine di apprezzamento degli Stati membri riguardo alle concrete modalità attuative del riconoscimento dello status di figlio rispetto a ipotesi sulle quali non può dirsi formato un consenso unanime, come appunto la maternità surrogata.

5. Sempre con riferimento al limite dell’ordine pubblico, la risoluzione del Senato pone l’accento sull’apparente inutilizzabilità dello stesso rispetto al certificato europeo di filiazione. Tuttavia, anche questa conclusione appare raggiunta in termini eccessivamente sbrigativi.

Per un verso, il certificato, pur andando oltre la semplice circolazione degli atti pubblici nazionali prevista dal regolamento UE 2016/1191, ha finalità esclusivamente probatorie (come indicato anche dall’80° considerando della proposta) e fa sorgere soltanto la presunzione che il rapporto di filiazione dallo stesso descritto sia conforme alla legge applicabile e alla situazione di fatto. Non si può dunque escludere che l’esistenza di tale rapporto possa essere contestata in sede giudiziale dinanzi al giudice italiano (se munito di competenza giurisdizionale sulla base di uno dei numerosi titoli previsti dalla proposta), con conseguente possibilità di invocare il limite dell’ordine pubblico contro un’eventuale legge straniera contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento. Allo stesso modo, la questione potrebbe essere sollevata dinanzi al giudice (anche) italiano in relazione alla necessità di un riconoscimento in via incidentale della decisione o dell’atto pubblico con effetti vincolanti sulla cui base è stato emesso il certificato.

Per altro verso, la stessa proposta prevede procedure di rettifica, revoca o modifica del certificato, attivabili anche d’ufficio dall’autorità di rilascio, ove sia stato accertato che il certificato o suoi singoli elementi non corrispondano al vero, e ciò ancora una volta sotto il controllo del giudice.

Anche in questo caso sembra dunque che, al di là di quanto effettivamente indicato nel parere motivato, ciò che veramente ha suscitato l’opposizione della Commissione parlamentare sia un elemento che rimane “sottinteso”, e cioè che nella maggior parte dei casi il rilascio del certificato faciliterà il riconoscimento della filiazione e consentirà di fatto la dimostrazione dello status di figlio. Infatti, da un lato, in taluni casi il certificato in sé potrebbe anche non far emergere che la filiazione consegue a una maternità surrogata (si pensi alle ipotesi delle coppie di sesso opposto o al genitore singolo); dall’altro, è probabile che esso, almeno indirettamente, possa costituire la base per consentire di superare eventuali resistenze degli ufficiali di stato civile, rendendo marginali le ipotesi di contestazione in sede giudiziaria.

6. Alla luce di quanto sopra si è detto, è chiaro che l’approccio adottato dalla Commissione Politiche europee del Senato sui punti sopra indicati appare difficilmente conciliabile con la stessa strategia politica sottesa alla proposta di regolamento e posta a tutela dei minori (ma ovviamente anche idonea ad avvantaggiare i loro genitori e il loro interesse all’affermazione del rapporto pieno di filiazione), poiché discende da un sostanziale rifiuto della necessità di riconoscere qualunque rapporto di filiazione costituito in un altro Stato membro a prescindere dalle modalità della sua costituzione.

In particolare, la risoluzione mostra una chiara contrarietà verso la surrogazione di maternità: tali dubbi, specialmente in presenza della forma commerciale di tale istituto, non possono essere considerati in sé incompatibili coi principi della stessa Unione europea in materia di tutela dei diritti fondamentali, dovendosi effettivamente qualificare l’istituto come una pratica che offende la dignità della donna gestante e che prefigura una sostanziale mercificazione del bambino prima della sua nascita. Ma è del tutto evidente che una politica dissuasiva basata esclusivamente sul disconoscimento della filiazione e dunque dei diritti del minore (già) nato da maternità surrogata si infrange contro altri, non meno fondamentali principi.

Sotto questo profilo, la proposta di regolamento UE ha il suo principale (ma inevitabile) elemento di debolezza nel fatto che lo strumento si concentra esclusivamente sul profilo del riconoscimento e non può sviluppare un quadro normativo adeguato per la surrogazione di maternità, rispetto alla quale una posizione puramente “proibizionista” a livello nazionale non sembra in grado di produrre gli effetti voluti. Sarebbe dunque certamente preferibile una spinta verso uno strumento globale che, al pari di quanto avvenuto per l’adozione trent’anni fa (con la conclusione della Convenzione dell’Aja del 12 maggio 1993 sulla protezione dei minori e la cooperazione riguardo all’adozione internazionale), istituzionalizzi, coinvolgendo anche gli Stati destinatari del c.d. turismo procreativo, la surrogazione di maternità, prevedendo le necessarie condizioni (ad esempio, in termini di valutazione della idoneità dei genitori intenzionali, di non mercificazione del bambino, di qualificazione degli intermediari, di tutela dei diritti della donna gestante) per consentire il riconoscimento del rapporto di filiazione anche in ordinamenti diversi da quello di origine ed evitando di rimettere la soluzione del problema esclusivamente alle norme di diritto internazionale privato. Un simile progetto è stato, d’altronde, parzialmente prefigurato nei recenti lavori della Conferenza dell’Aja (v. il Rapporto finale del Gruppo di esperti del 1° novembre 2022), che suggeriscono la possibile conclusione di una convenzione recante norme generali in materia di filiazione e di un separato protocollo relativo alla maternità surrogata: rispetto alla futura negoziazione di tali strumenti l’esistenza della proposta di regolamento potrà consentire all’Unione europea di giocare un ruolo significativo, ma l’indirizzo che essa assumerà in proposito non può dirsi ad oggi definito. In attesa di tali sviluppi, si tratta a questo punto di capire quale posizione intenderà assumere il Governo in sede di Consiglio rispetto alla proposta di regolamento UE e in quale misura esso farà proprie le preoccupazioni espresse nella risoluzione del Senato, che, come chiarito nella stessa, costituisce anche un atto di indirizzo al Governo ai sensi dell’art. 7 della L. 234/2012. Peraltro, ove tale approccio fosse fatto proprio dall’esecutivo e venisse successivamente accolto da parte del Consiglio, esso potrebbe addirittura essere considerato come uno snaturamento della proposta e degli obiettivi politici che questa si prefigge, inducendo la Commissione europea a ritirarla. Per contro, ove il Consiglio ritenesse di allinearsi alla posizione della Commissione europea stessa, l’adozione dell’atto all’unanimità potrebbe sicuramente rendere meno stridenti eventuali “forzature” della base giuridica in termini di sussidiarietà o di proporzionalità, ma disconoscerebbe la posizione chiaramente assunta dai Parlamenti di due Stati membri fondatori.

Appare dunque chiaro che i tempi per l’approvazione della proposta di regolamento non si profilano certamente brevi e che le probabilità di un’adozione dello strumento sotto forma di cooperazione rafforzata (senza la partecipazione dell’Italia?) rimangono assai elevate.

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Giacomo Biagioni

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